Sulla riva il nauseabondo puzzo di pesci morti.

In questa domenica post ferragostana mi è capitato di leggere due interventi sulla lingua italiana, e su come sia cambiata negli ultimi anni.

La prima lettura è un post di Beppe Grillo dove il comico/politico (?) si lamenta che nel nostro paese non si possa più parlare. L’uso del politically correct avrebbe anestetizzato la nostra comunicazione, sarebbe diventato una piaga ipocrita che genera confusione e falsità. Non aspettatevi una esegesi raffinata sull’uso e abuso del linguaggio; Grillo ci ha ormai abituato a considerazioni e riflessioni da “un tanto al chilo” dove si confonde e contraddice più volte. Per esempio, il politically correct prevede l’ uso della perifrasi non vedente per cieco e non udente per sordo, fino a persona non vivente per cadavere (come denuncia Grillo), ma cosa c’entra il politically correct con il chiamare Berlusconi statista invece di evasore fiscale o definire gli anziani saggi invece che vecchi rincoglioniti? (sospetto che il riferimento sia al Capo dello Stato) Tutto questo appartiene alla polemica politica e nulla c’entra l’uso dell’eufemismo come artifizio retorico che tende ad attenuare la sgradevolezza di certe parole. Semmai è Grillo che usa proditoriamente il disfemismo per definire i suoi avversari politici (vecchio rincoglionito per anziano presidente, cadavere ambulante o zombie per il politico fallito ecc.). Grillo si lamenta che le parole siano diventate di plastica, si siano svirilizzate (sic). Chissà perché nella testa del comico le parole dovrebbero essere virili (a dispetto del genere grammaticale) e non femminili, con la propensione che è propria della femminilità: generare senso e attitudine alla cura. Scrive Grillo: “Mentre parli devi continuamente e seriamente valutare se ogni parola che stai per pronunciare può urtare la sensibilità di qualcuno…” e si capisce tutta la sua fatica e il dramma. Meglio parole in libertà, e vaffanculo tutto il resto.

La seconda lettura è un articolo di Diego Marani su “Domenica” de “Il Sole 24 Ore” dal titolo Ferite di una lingua malata. L’autore è un traduttore e ci racconta che una forma del suo riposo estivo è lasciare da parte la frequentazione di lingue straniere e abbandonarsi alla rassicurante certezza della propria lingua. Marani ci racconta però che il percorso attraverso i libri di autori italiani o stranieri tradotti non lo ha fatto approdare nella quiete della lingua della propria nutrice. E alla fine si rifugia in Hangover Square di Patrick Hamilton in lingua  inglese. E così riflette: “L’inglese, di nuovo lui. Ma dov’è dunque finito il mio anelito al ritorno nella lingua madre? Perché appena arrivato già fuggo? E allora mi accorgo che è proprio questo l’ostacolo. Questa lingua, che è la mia unica, oggi è inquinata dai lanciatori di banane che usano le parole come i pugni per aggredire un ministro della Repubblica di origini congolesi. In qualsiasi altra lingua chi avesse pronunciato insulti simili sarebbe stato espulso dalla società come un corpo estraneo. Nella mia lingua invece viene portato in trionfo da ciurme di sostenitori. La mia cara lingua oggi è umiliata dagli squadristi omofobi che vorrebbero marchiati col fuoco tutti i diversi, è insanguinata dagli stupratori misogini che addestrati alla morale della sopraffazione di una società senza valori uccidono per dominare, la mia lingua è offesa dalla torva terminologia processuale che dando ai reati nomi incomprensibili finisce per renderli solo curiosità del vocabolario. Non chiamare le cose con il proprio nome è già un attacco alla libertà, un’usurpazione del nostro diritto di capire. È la mia lingua tutta che oggi marcisce passando per il pensiero deforme di uomini scellerati che parlano per ingannare, che s’indignano e proclamano e poi smentiscono tutto quel che dicono, perché infine nulla dicono, è la mia lingua che loro usurpano e a me diventa nauseabonda, come il mare spossato dalla calura di questi giorni che butta a riva pesci morti. Restano a marcire come le mie amate parole sulla riva desolata di questo turpe tempo.

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