Ho ritrovato un vecchio articolo (2004) di Maurizio Bettini in recensione al libro di Salvatore Settis Futuro del “classico”. L’articolo inizia con una citazione (ironica) da Mark Twain “Il classico è quel libro che tutti vorrebbero aver letto, ma che nessuno ha voglia di leggere” e, proseguendo Bettini pone al lettore la domanda delle “cento pistole”: “Ma allora, che cos’è un classico?”
Che molto assomiglia alla domanda che ci siamo posti qualche tempo fa: “Che cos’è la letteratura?”. Nel prosieguo dell’articolo Bettini candidamente ci confessa di aver teso al lettore una trappola, perché alla domanda “Che cos’è un classico?” è impossibile trovare una risposta. Che sia così anche per la nostra domanda: “Che cos’è la letteratura?” Colpisce però la pervicacia con cui illustri critici letterari continuano a cercare risposte a questa domanda/trappola. Infatti ieri leggevo sulla “Domenica” de “Il Sole 24 ore” l’articolo di Alfonso Berardinelli Che cos’è la letteratura? Narrativa e poesia sopravvalutate. (leggi qui) Berardinelli lamenta che negli ambienti letterari resiste una superstizione per cui soltanto alcuni generi (narrativa e poesia) hanno rilevanza letteraria, mentre sarebbero marginali la prosa non narrativa, la prosa di riflessione e di pensiero, la critica d’arte e la critica letteraria, la prosa filosofica, storica, giornalistica, civile e politica, polemica e autobiografica. Elenca una serie di autori e di libri (di genere diverso dalla narrativa e dalla poesia) che secondo lui appartengono di diritto alla letteratura. E chiude l’articolo rispondendo così alla fatidica domanda: “Che cos’è la letteratura? In mancanza di definizioni generali o generiche (ecco l’impossibilità della risposta!) preferirei la più empirica, pragmatica e lapalissiana delle formule: letteratura è scrivere nel modo migliore qualcosa di interessante.”
Formula che assomiglia alla proposta di Mozzi di considerare letteratura “ogni qualcosa di scritto”, ma che con l’uso dell’aggettivo migliore ci rimanda a un giudizio di qualità e quindi al canone.
‘Migliore’, ‘peggiore’… già avanzavo nell’altro filo di commenti, il sospetto che il giudizio di valore (di derivazione crociana) sia duro a morire. Sui resti (residui, o rovine?) dei vari -ismi critici post idealisti, quel giudizio sembra, tutto sommato, troneggiare: ci sarebbero canoni, senza (dover) scegliere se includere o meno in essi, opere ‘letterarie’ di qualche ‘valore’? Al tempo dell’egemonìa (ma anche ubriacatura) strutturalista, invece, per la critica orientata in quel senso contava solo il funzionamento di un’opera, non il suo (presunto) valore ‘letterario’ (bei tempi?).
Tornando alla domanda iniziale (cos’è la letteratura?), direi che gli approcci sono essenzialmente due: teoretico, o empirico. Il primo conduce a una risposta formalizzata, e tra le risposte di questo tipo, continuo a ritenere originale e convincente quella tentata da Orlando, basata sulla logica freudiana del motto di spirito (witz): un testo sarebbe letterariamente riuscito (sarebbe quindi ‘letterario’), quando producesse piacere in un lettore, nello stesso modo (strutturale) prodotto da un bel motto, ossia ben coniato (quelli brutti – v. giudizio di valore! – non fanno ridere, lasciano perplessi ecc.), secondo un compromesso efficace tra la logica del sistema c.detto inconscio, e quella del sistema conscio.
Il secondo approccio invece, è molto diverso, e mette radicalmente in questione l’originaria domanda, che temo perda senso, se non ripensata in altri termini, questi: cosa si dice che sia la letteratura? In questa prospettiva – empirica, relativista, storicistica – il ‘campo’ della ‘letteratura’, del ‘letterario’, non ha fondamento inconcusso in una qualche teoria (sperabilmente non aporetica), ma è delimitato sempre e solo provvisoriamente. Tale campo ha confini mobili, perennemente (ri)definiti dal conflitto tra le interpretazioni, prodotte in margine a testi di vario genere. Tutte le interpretazioni, che accedano in qualche modo alla sfera pubblica: egemoniche o subalterne, professionali o ingenue, viziate da interessi di mercato o disinteressate e intellettualmente oneste che siano. In fondo, anche un tam tam tra lettori che promuova la lettura di un dato testo, concorre alla sua fortuna, che pone di conseguenza il problema della presenza futura, o meno, di quel testo in un canone. La riflessione professionale di Berardinelli (ringrazio Paolo della segnalazione!), sta lì a dire: cambiamo il criterio del canone, mettiamoci dentro più roba, cerchiamo di non temere l’effetto bazar. Tuttavia, senza il cardine dialettico di un qualche canone, non avremmo nemmeno di che discutere (e siamo alla definizione onnicomprensiva di Mozzi, che non mi convince). Con Luperini, allora, direi: né assolutizzazione del canone (anche ‘grandi’ autori, ‘classici’, imprescindibili un tempo, possono finire buttati giù dalla torre), né nichilismo rispetto a esso, che conduca alla sua negazione . Che a sua volta negherebbe il conflitto delle interpretazioni, fattore dinamico, storico, empirico (democratico), di (ri)definizione dello spazio enigmatico di quanto, di tempo in tempo, chiamiamo ‘letteratura’.
Scrive Stefano: “Al tempo dell’egemonia (…) strutturalista, (…) per la critica orientata in quel senso contava solo il funzionamento di un’opera, non il suo (presunto) valore letterario”
Vero, ma non è che il valore letterario si identificasse nel funzionamento dell’opera? Ovvero a un testo veniva attribuito tanto più valore letterario quanto più esso funzionava. Lo strutturalismo si concentra sul piano della forma (relazioni, strutture, combinazioni) ma è Barthes che aggiunge che un testo esprime anche la propria deriva pulsionale, la spinta al piacere o al godimento (Plaisir du Texte).
Su un altro piano, però qui non posso trascurare la suggestione che mi suscita il risuonare della parola “piacere”, quale eco della teoria orlandiana.
Alla scienza del linguaggio Barthes oppone “la scienza dei godimenti del linguaggio”, cioè la scrittura, dove si rintraccia la sensualità della “significanza”, che non è il significato, ma piuttosto il “godimento”, la jouissance.
Queste considerazioni sono tratte da una recensione di Bottiroli a Il piacere del testo di R. Barthes. (vedi il link sottostante)
http://www.ibs.it/code/9788806132682/barthes-roland/variazioni-sulla-scrittura.html
Se non ricordo male, il piacere del testo nell’aureo libretto di Barthes, è paragonato a un certo punto, ai momenti in cui la pelle traspare dalle vesti, nei momenti dello spogliarello che precedono la nudità, quando il corpo non ‘racconta’ più nulla. Il piacere prodotto dalla formazione di compromesso nella teoria orlandiana è molto meno metaforico: un modo di pensare ‘infantile’, incardinato nel principio di piacere, può ‘tornare’ (ritorno del represso) solamente sotto lo schermo d’una repressione, necessariamente assunta dal lettore attraverso la funzione-destinatario, interna al testo. Nel patto tra lettore e autore, tale funzione può essere assunta in modo giusto o sbagliato: l’intentio lectoris non sarebbe affatto libera, essendo v.versa vincolata alla logica delle istanze in compromesso tra loro, secondo lo schema R/r (repressione su represso). In Orlando, quindi, il numero delle interpretazioni d’un testo (‘letterario’) è finito (come anche in Eco, del resto, su altre basi): ragione per cui, temo, teorie di questo tipo non risultano troppo popolari, che sappia, extra accademia.
Ma prima di derivare ancora su altri mille riferimenti possibili (alla rinfusa: Sartre, Todorov, Genette, Bloom, Berardinelli, Brioschi citato da quest’ultimo, Fortini, Luperini ecc.), mi piacerebbe stabilire un paio di punti fermi, da cui eventualmente ripartire: siamo (sei) d’accordo sulla radicale differenza tra i due approcci (teoretico, o empirico), che si elidono a vicenda rispetto alla domanda sulla letteratura, posta in origine? E volendo scegliere un approccio empirico, ha senso che la domanda resti com’era, o non è più sensato che cada, sostituita da: cosa si dice che sia la letteratura?
Non era mia intenzione introdurre nessun parallelismo tra la teoria di Orlando e Barthes che sono e restano lontani come hai spiegato bene tu. All’inizio del tuo commento avevi ricordato l’ubriacatura strutturalista e così ho pensato a Barthes e, come ho scritto, ho solo provato una suggestione nel sentire risuonare (come un’eco) la parola piacere.
Tornando alla questione dei due approcci teoretico ed empirico direi che effettivamente si elidono a vicenda. Quello teoretico si avvale di una gabbia interpretativa rigida, si basa su fondamenti inconcussi, che resistono nel tempo e che restano tali fino a quando non sopraggiunge una nuova teoria che ne confuta la validità. La teoria orlandiana mi è sempre apparsa molto affascinante, ma non così convincente, gli attribuisco una buona dose di spericolatezza, azzardo. Il fatto stesso che poggi su una teoria freudiana, novecentesca, sottoposta da tempo a revisioni e ripensamenti la rende particolarmente vulnerabile proprio nei suoi fondamenti. Sento quindi di condividere maggiormente l’approccio empirico, per la mobilità dei confini del campo letterario che propone. Un campo letterario dotato di una sliding-door da cui far uscire ed entrare un testo sotto la pressione delle interpretazioni delle istituzioni accademiche, del mercato, dei lettori, dei critici ecc.
Accolgo la tua proposta di emendare la mia domanda originaria da “cos’è la letteratura?” a “cosa si dice che sia la letteratura?” proprio perché la prima presuppone una risposta inconcussa, mentre la seconda resta aperta, conflittuale, interrogativo permanente.
E ci riporta indietro a Formaggio. “La letteratura è tutto ciò che gli uomini chiamano letteratura”
Ottimo, caro Paolo: se siamo al Formaggio, allora non siamo – quantomeno empiricamente – alla frutta! 😉
Appena letto un Segre ’98 che torna utile qui: “M’interessa il ricorso alla parola canone. Il significato da cui credo utile partire è il seguente: ‘elenco dei libri biblici considerati ispirati da Dio’. In questo caso c’è un’autorità religiosa che stabilisce, tra un gruppo di testi, quali siano ispirati da Dio; pertanto, il canone è imperativo. La stessa autorità ha deciso che altri libri non sono ispirati da Dio. Per esempio, il canone cattolico del Vecchio Testamento comprende otto libri in più rispetto al canone ebraico e protestante: Tobia, Giuditta, due dei Maccabei, la Sapienza, l’Ecclesiastico, ecc. Altre volte il canone è diversamente imperativo. Penso al significato: ‘Insieme di autori o di opere presi come modelli’. ”
In occasione della scomparsa recente del grande filologo e critico, il sito diretto da Luperini ‘laletteraturaenoi’ ha ripubblicato “Il canone e la culturologia” qui: http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/245-il-canone-e-la-culturologia.html