Ho appena finito di leggere L’anno dei dodici inverni di Tullio Avoledo.
Quando il gruppo di lettura “Mea, Libri Tutti!”, di cui faccio parte, l’ha proposto ho subito sostenuto la scelta, perché era un autore che da tempo volevo incontrare. Sapevo che era stato “scoperto” da Mozzi; ne fa fede il libro d’esordio L’elenco telefonico di Atlantide, edito da Sironi nel 2003. È uno scrittore che ha esordito tardivamente (a quarantasei anni, essendo del 1957) così come il suo corregionale Paolo Maurensig (anche se, per la verità, Maurensig è un giuliano di Gorizia, mentre Avoledo è un friulano di Valvasone). Chissà se questo condiviso tardivo destino editoriale ha qualcosa a che fare con le loro origini, la loro terra, la loro gente? Conosco quella realtà, è una terra dove si è sparso molto sangue, tra dolore e fatica; dove la gente parla poco, è chiusa, beve. Insomma un po’ come i personaggi del libro di Avoledo, un po’ sfigati, tendenti all’autodistruzione.
Premetto che la fantascienza è un genere che ho poco frequentato e quel poco non l’ho apprezzato, tranne l’eccezione Asimov, grazie alla perseguita plausibilità scientifica delle sue storie. Insomma sono un razionalista e quando sento puzza di irrazionale o di molto poco verosimile mi si drizza il pelo come un gatto davanti a un molosso. La trovata della Chiesa della Divina Bomba, dedita al culto di Philip K. Dick, è grottesca, un elemento posticcio della storia, così come la figura del vescovo Prosser. La citazione del Cryptex e di Dan Brown inessenziale alla vicenda, così come tutte quelle pedanti citazioni di griffe di oggetti che, forse, nelle intenzioni dell’autore, vorrebbero connotare l’epoca dei fatti narrati. Ma la cosa meno convincente, tranne qualche felice passaggio qua e là, è la scrittura di Avoledo. La prima parte con l’incontro di Libonati con la famiglia Grandi si fa leggere, ma la parte centrale quando entra in scena lo sceneggiatore Giammarco Terlizzi è di una sciatteria imperdonabile. Cito solo due passaggi davvero infelici.
Quando Chiara soffre per la sparizione di Eric il narratore ci dice: “È uno di quei momenti che Esther (la madre di Chiara, ndr) non augurerebbe nemmeno a un cane.”
Una locuzione tra il gergale e il dialettale di registro davvero basso.
E poi, poche pagine prima, parla di “…deliziosa tela di Vedova” e poi ancora “…quel quadro di Vedova era uno splendore”. Non credo che bisogni essere dei profondi conoscitori della Storia dell’Arte per rimanere sconcertati nel sentir definire un’opera di Vedova deliziosa e splendente. Uno dei principali esponenti della pittura informale gestuale, che è arrivato a sfondare i limiti del quadro viene definito delizioso e splendente. Sono rimasto deluso da questo incontro anche se devo ammettere che leggere un solo libro (Avoledo ne ha pubblicata una decina) non consenta di apprezzare compiutamente l’autore. Ma quello che mi ha colpito è che navigando per la rete ho trovato, quasi esclusivamente, giudizi molto positivi su Avoledo, sulla sua scrittura e su L’anno dei dodici inverni. Mi è toccato leggere, sul blog “Nazione Indiana”, Biondillo che scrive su Avoledo e L’anno: “la sua lingua è nitida, senza gergalità o aulicismi” (sic). Insomma, avverto da parte della critica una certa indulgenza nei confronti di questi autori, come ci fosse la consapevolezza della difficoltà di scrivere un romanzo, mantenendo coerenza, tensione, controllo, rigore dalla prima all’ultima pagina. La presa d’atto che nell’attuale momento storico abbiamo questi scrittori e tanto vale sostenerli, anche se non sono pienamente convincenti. Sapendo che nessuno di loro diventerà un classico. Chissà quando nascerà un altro Buzzati, Cassola, Pontiggia, Bassani, Fenoglio, Calvino, Morante, Landolfi, Meneghello…