Abbiamo visto Il grande Gatsby di Lurhmann al cinema. Non ci è piaciuto per niente. Qui entra in gioco la grande questione della trasposizione della Letteratura nel Cinema. Francesco Piccolo la affronta con un bell’articolo su “la Lettura” del 2 giugno: Perché Gatsby non sarà mai un grande film (leggi qui). E conia per l’occasione una definizione del cinema: “Il cinema è la letteratura meno la letteratura.” Evidentemente va molto di moda la definizione sottrattiva (vedi post precedente PD-L), ma a noi lettori sembra un po’ furbetta, ad effetto, perché se Cinema = Letteratura – Letteratura, cosa resta? A noi piacerebbe capire se il film di Lurhmann non ci è piaciuto perché è un brutto film, male interpretato, sceneggiato, diretto o invece perché l’abbiamo sentito così lontano dal libro che abbiamo tanto amato. Per avere una risposta sicura avremmo dovuto sottoporci a un processo di lavaggio della memoria, dimenticare completamente le pagine fitzgeraldiane e goderci il film con la mente sgombra da condizionamenti. Tutto ciò è impossibile e continueremo sempre a dire che un film ci è, o non ci è piaciuto in relazione a quanto lo sentiamo vicino, non tanto al libro da cui è tratto, ma alla “lettura” che noi abbiamo fatto di quel libro. Dipenderà da come quel libro ci ha cambiato la vita, o il punto di vista sulla vita, o da quante illusioni e speranze ci ha procurato. Il confronto fra Letteratura e Cinema è un’operazione perversa che non va proprio fatta. È un’equivalenza impropria che disattende la severa regola della matematica che ci ha insegnato la nostra maestra elementare: “Attenzione bambini non si sommano mele con patate!” La letteratura, il romanzo può fornire al cinema al massimo il soggetto, la storia, ma da questo nodo condiviso dipartono due strade/scritture che divergono e conducono in territori diversi. Strade diverse nella morfologia, nella conformazione, nel dislivello. Il pirotecnico Grande Gatsby di Lurhmann, non ci è piaciuto, proprio perché rinuncia in partenza a proporre un proprio linguaggio, fa troppo il verso al romanzo con il narratore interno (Nick Carraway) e un Leonardo di Caprio poco convincente nella parte di Gatsby. E poi alla fine Lurhmann si è arreso, ha messo da parte gli effetti 3D, le fumettistiche corse in macchina, la fantasmagorica villa di Gatsby e ha introdotto la voce fuori campo che ha declamato le parole di uno dei più pregnanti explicit della letteratura: “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”
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EPTACAIDECAFOBIA
Nessuno tra i venti partecipanti all’ultimo cenacolo è risultato affetto da questa fobia. Una sera, di un venerdì 17, di un maggio piovoso dell’anno 2013 (aspetto ridondante per i triscaidecafobici) ben venti adepti si sono incontrati a Mestre, in prossimità dei 4 cantoni, (ultra-ridondante per i tetrafobici) a leggersi reciprocamente, nell’intento di affermare il primato della scrittura sulla più bieca superstizione. Improbabili storie con protagonisti Andrea e Paolo, coppie omosessuali, rapporti sadomaso, la fine di Mondo e in conclusione, beffarda, la statua di cera Grey, colata dal delirante crogiuolo di Fabio. C’era il pienone venerdì 17 da “Francy e sua sorella”. Il Cenacolo Letterario, nato giusto un anno fa, alla fine del Laboratorio del Tobagi ha via via raccolto nuovi iscritti. Sembra così lontano il tempo in cui così raccontavo i nostri primi incontri:
“Venerdì 20 luglio presso la dimora di Stefania terzo incontro del Cenacolo Letterario. Nell’ampia terrazza al quarto piano uno sparuto gruppo di sopravvissuti si è dato appuntamento per parlare di letteratura (e di cose della vita, che poi è ciò di cui tratta la letteratura). A parte il primo incontro a casa di Elisabetta, che si è tenuto nel parterre esterno della sua casa, i due successivi si sono svolti nelle alte terrazze dove con lo sguardo si domina Venezia (Annalisa) e Mestre (Stefania). L’altra sera i partecipanti, arrivati alla spicciolata, venivano accolti dalla padrona di casa e da chi li aveva preceduti con festosi saluti, ma loro avevano l’occhio sbarrato, l’affanno alla gola e il cuore accelerato per lo sforzo di essersi issati al quarto piano in una afosa sera d’estate. Raggiungevano la ringhiera della terrazza e simulavano un rapimento estatico lanciando lo sguardo oltre l’orizzonte in attesa che rientrasse nella normalità la frequenza cardiaca e respiratoria. Dopo di che arrivavano al desco, salutavano con ritrovato slancio e si dedicavano all’assaggio dei cibi e dei vini ritrovando la consueta convivialità. Curiosa questa coincidenza di trovarsi ai piani alti, quasi ci fosse l’intento di ottenere un punto di vista largo che spazia e comprende. Eravamo in cinque: oltre il sottoscritto, Stefania, Elisabetta, Franco e Luisa.”
Venerdì 17 eravamo in venti, non più collocati su svettanti altane. Non essendoci consentito il punto di vista largo l’abbiamo sostituito con molteplici e diversi punti di vista.
ANALISI DI UN ACRONIMO.
Nel linguaggio immaginifico di Beppe Grillo la sostanziale equivalenza tra centro destra e centrosinistra è rappresentata dalla equazione PDL = PD – L . E graficamente la cosa ha una certa efficacia perché il segno meno isola l’acronimo PD, rendendolo riconoscibile e nello stesso tempo quasi sovrapponibile a quello del PDL. La cosa funziona un po’ meno bene quando questa equivalenza non viene rappresentata graficamente, ma viene enunciata dallo sbraitante comico. “Il pidìmenoelle è un partito di zombi”. Possiamo anche concordare sul giudizio politico, ma quello che appare un nonsense è il soggetto della frase. Andrebbe così riformulata: “il pidiellemenoelle è un partito di zombi”. Appare evidente infatti che a PD non si può togliere la L che non ha, operazione che invece ha successo se la stessa L la togliamo a PDL.Non possiamo certo pretendere che Grillo nei suoi animati comizi usi un linguaggio controllato e faccia analisi da raffinato linguista, però questo slogan così enunciato è davvero una castroneria. E a quanto pare nessuno gliel’ha mai fatto notare. In ogni caso sarebbe interessante analizzare le conseguenze di questa sottrazione, del venir meno della L. Che cambiamenti determina nel PD? Lo classifica come un minus habens? La lettera L sta per libertà (Popolo della Libertà). Sta quindi a significare che il PD difetterebbe in questo fondamentale attributo, che della Rivoluzione Francese avrebbe raccolto le bandiere della Solidarietà (Fraternité), della Eguaglianza (Égalité), ma avrebbe lasciato cadere quella della Libertà (Liberté)? Non sembrerebbe, vista l’estrema libertà di voto espressa dai suoi rappresentanti in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica. Insomma il PD sarebbe un PDL meno Libertà. Il sospetto però è che anche le altre due lettere (P e D) dell’acronimo pongano qualche problema interpretativo. La P nel PDL sta per Popolo mentre nel PD sta per Partito. Ciò significa che, almeno nel nome, c’è maggior affinità tra il PDL e il M5S che tra lo stesso PDL e il PD. Infatti Grillo vede come fumo negli occhi i partiti e quindi alla sua creatura politica ha attribuito l’epiteto di Movimento, così come Berlusconi alla sua quello di Popolo. Si vuole così alludere a un rapporto diretto tra il leader e i suoi seguaci, senza che sia previsto nessun passaggio democratico dove si formino le decisioni e si stabiliscano le politiche. Alla fine ci resta da confrontare la D. Che nel PDL è derubricata a preposizione articolata (della) e nel PD sta a indicare Democratico. Con il PDL che neppure lo contempla e il PD che fatica a praticarlo, il metodo democratico.
Una trappola di domanda
Ho ritrovato un vecchio articolo (2004) di Maurizio Bettini in recensione al libro di Salvatore Settis Futuro del “classico”. L’articolo inizia con una citazione (ironica) da Mark Twain “Il classico è quel libro che tutti vorrebbero aver letto, ma che nessuno ha voglia di leggere” e, proseguendo Bettini pone al lettore la domanda delle “cento pistole”: “Ma allora, che cos’è un classico?”
Che molto assomiglia alla domanda che ci siamo posti qualche tempo fa: “Che cos’è la letteratura?”. Nel prosieguo dell’articolo Bettini candidamente ci confessa di aver teso al lettore una trappola, perché alla domanda “Che cos’è un classico?” è impossibile trovare una risposta. Che sia così anche per la nostra domanda: “Che cos’è la letteratura?” Colpisce però la pervicacia con cui illustri critici letterari continuano a cercare risposte a questa domanda/trappola. Infatti ieri leggevo sulla “Domenica” de “Il Sole 24 ore” l’articolo di Alfonso Berardinelli Che cos’è la letteratura? Narrativa e poesia sopravvalutate. (leggi qui) Berardinelli lamenta che negli ambienti letterari resiste una superstizione per cui soltanto alcuni generi (narrativa e poesia) hanno rilevanza letteraria, mentre sarebbero marginali la prosa non narrativa, la prosa di riflessione e di pensiero, la critica d’arte e la critica letteraria, la prosa filosofica, storica, giornalistica, civile e politica, polemica e autobiografica. Elenca una serie di autori e di libri (di genere diverso dalla narrativa e dalla poesia) che secondo lui appartengono di diritto alla letteratura. E chiude l’articolo rispondendo così alla fatidica domanda: “Che cos’è la letteratura? In mancanza di definizioni generali o generiche (ecco l’impossibilità della risposta!) preferirei la più empirica, pragmatica e lapalissiana delle formule: letteratura è scrivere nel modo migliore qualcosa di interessante.”
Formula che assomiglia alla proposta di Mozzi di considerare letteratura “ogni qualcosa di scritto”, ma che con l’uso dell’aggettivo migliore ci rimanda a un giudizio di qualità e quindi al canone.
Pane e latte (cate-cate)
Oggi ho accompagnato mia suocera in panificio. Ho fermato la macchina. Lei è scesa, non senza fatica. Ha ottantasei anni, e si è avviata con passo incerto verso il negozio. Io ho atteso in macchina e poco dopo l’ho vista uscire con una borsa di plastica sottile che conteneva malamente un filone di pane incartato in un sacchetto. Ha aperto lo sportello, le ho preso la borsa affinché salisse più agevolmente e le ho chiesto:
“Ma cosa ha comprato?”
“Il pane e il latte!” Mi ha risposto, come fosse la cosa più ovvia.
Un paio di ore prima ero stato al supermercato e avevo fatto una spesa con la quale avevo riempito il carrello. Sono rimasto folgorato dall’essenzialità di mia suocera. Pane e latte. Bisogni primari. Cibo per sopravvivere. Nelle furiose e indifferenziate spese del sabato mattina abbiamo smarrito il senso del procurarsi il cibo. Pane e latte. Uscire di casa per comperare pane e latte. La semplicità della vita, sentirsi in sintonia con la propria pancia, con l’Universo.
Manìna bela,
Fata penèla,
dove sétu stata?
Dala nòna.
Cossa te ga dà?
Pan e late,
Cate, cate, cate!
Viola e la scarpina di cristallo
Nel romanzo di Sandro Veronesi Venite venite B-52 (1995) Viola, la figlia adolescente del protagonista, chiede al padre perché nella fiaba di Cenerentola, dopo la mezzanotte, tutto ridiventi come prima: la carrozza una zucca, l’abito di Cenerentola un vecchio straccio rattoppato, ecc. Soltanto la scarpina di cristallo, che rimane in mano al principe, non subisce alcuna metamorfosi. È una domanda intransigente, severa, adulta, che inquieta. Innanzitutto mi viene da pensare che spesso per indicare qualcosa che non cambia, che resta indifferente al mutamento, si usa la parola: cristallizzata. Si potrebbe ipotizzare che tale uso derivi proprio dalla fiaba di Perrault e da quella mutazione mancata: la scarpina di Cenerentola si è per l’appunto cristallizzata. Ma perché si è cristallizzata?
Prima ipotesi
Il principe ha toccato la scarpina, raccogliendola da terra, quando Cenerentola l’ha persa, fuggendo via a mezzanotte. Il principe era un Re Mida. Anziché tramutare in oro ogni cosa che toccava aveva il potere di conservare le cose nello stato in cui si trovavano al momento del contatto con le sue mani. Ciò spiegherebbe anche la politica di conservazione di tutte le monarchie, la tendenza dei sovrani a custodire le antiche tradizioni, opponendosi a qualsiasi cambiamento. La debolezza di questa prima ipotesi risiede nel fatto che dovremmo supporre che durante tutta la sera il principe azzurro, ballando con Cenerentola, non avesse mai toccato né il vestito, né altro alla sua dama. Altrimenti anche quell’elemento, sotto l’influenza del tocco principesco avrebbe dovuto sottrarsi alla mortificante metamorfosi.
Seconda ipotesi
I mutamenti indotti dall’incantesimo della fata, sia prima del ballo, che dopo, avvenivano soltanto alla presenza di Cenerentola. Una formula alchemica che associava la magia della fata con un sinergico fluido interiore di Cenerentola. Quando il principe raccoglie la scarpina, Cenerentola è ormai lontana e non può più influire, per la sua parte, nel processo di trasformazione. La debolezza di questa seconda ipotesi sta nel fatto che quando l’inviato del re prova la scarpina a Cenerentola, il contatto con il suo piede avrebbe dovuto trasformarla in un vecchio zoccolo, essendosi ricongiunti il fluido di Cenerentola e la magia della fata.
La verità è che non abbiamo una risposta che possa soddisfare l’intransigente Viola. Le fiabe sono fiabe e gli autori si prendono qualche licenza.
È il privilegio della scrittura: scardinare la realtà, capovolgere il mondo.
A proposito dell’immaginazione e della funzione eversiva e insensata della letteratura vi invito a leggere questo articolo di Tiziano Scarpa
Cosa (non) è oggi letteratura?
Mercoledì scorso abbiamo posto a Fulvio Ervas, autore di Se ti abbraccio non aver paura una domanda.Se il successo del suo libro fosse dovuto alla forza della storia raccontata o alla potenza della pagina scritta. Insomma gli abbiamo posto una questione da niente: trovare una risposta alla domanda “cosa fa di un testo, un testo letterario?” Interrogativo che è figlio di un’altra domanda ancora più sconcertante: “che cos’è la letteratura?”
La questione posta era evidentemente provocatoria e nasceva dall’aver riscontrato nel libro di Ervas un deficit di letterarietà. Un’impressione che non si è saputo enucleare e definire ma che si manifestava nell’evidente contrasto tra la commovente vicenda umana di Andrea e Franco e il resoconto pressoché diaristico del loro viaggio attraverso le Americhe.
Il nostro chiedersi e chiedere “che cos’è la letteratura?” nasceva anche dal resoconto di un dibattito tra Russo, Cortellessa e Ostuni dove la loro acribia di critici letterari arrivava a stabilire una distinzione tra narrativa e letteratura affermando che: “la narrativa tratta di cose che sono sotto gli occhi di tutti, mentre la letteratura traduce lo spirito del tempo in un pensiero inaspettato, parla dell’oscuro, di ciò che non è ancora stato visto.”
La domenica di Pasqua “la Repubblica” ci è venuta in soccorso con due articoli di Simonetta Fiori e Massimo Recalcati. Quello di Simonetta Fiori Viaggio al termine del pudore cercando il nuovo bestseller (bel titolo che parafrasa Céline), lo trovi qui, cita Se ti abbraccio non aver paura e afferma che: “Il dolore è di gran moda. Le lacrime fanno vendere. E gli editori le inseguono con la stessa febbre dei cercatori d’oro”.
Massimo Recalcati nel suo articolo Una questione privata? (bel titolo che parafrasa Fenoglio), lo trovi qui, ci mette un catenaccio Ecco perché il dolore, anche se ha grande successo in libreria, non si può chiamare letteratura.
Il problema è il rapporto tra vissuto e parola, c’è una tendenza diffusa a ridurre l’esercizio della scrittura a diario privato. Recalcati ci ricorda che “il trasferimento della vita sulla pagina scritta non possa avvenire se non attraverso l’imbuto stretto del linguaggio e che un’opera letteraria esige la mediazione calcolata del linguaggio, l’esistenza di una forma, un’attività di sublimazione che sia in grado di trasformare la dimensione informe del vissuto nel miracolo di un’opera”
Il titanico sforzo del senatore Crimi
Tra le molteplici dichiarazioni di questi giorni dell’ineffabile senatore Vito Crimi questa mi ha colpito in modo particolare: “No a fiducia in bianco a gente come Bersani”. Si è molto discusso in questi giorni della competenza di questi nuovi parlamentari, della loro cultura istituzionale. Io comincio ad avere qualche dubbio sulla loro competenza linguistica. Ma conoscono il significato delle parole che usano? Per esempio l’ineffabile senatore Crimi, tra un’invettiva ai giornalisti e le scuse all’assonnato Napolitano, ha piena consapevolezza del significato della locuzione “No a fiducia in bianco a gente come Bersani”?
Certamente gli sarà sembrato di esprimere una perentoria presa di posizione politica, rifuggendo qualsiasi machiavellico compromesso, ma non si è reso conto che stava negando a Bersani qualcosa che lo stesso Bersani non gli aveva chiesto? Dare la fiducia in bianco è una locuzione mutuata dalla lingua settoriale dell’economia (firmare una cambiale in bianco, emettere un assegno in bianco) e in senso metaforico sta a significare la disponibilità a concedere un credito, una fiducia a priori, senza conoscere l’entità del credito e lasciando alla controparte piena discrezionalità nella misura e nella consistenza del credito da concedere. Una fiducia in bianco, per l’appunto.
Il povero Bersani ha faticato non poco a ficcare gran parte del programma politico del PD dentro otto striminziti punti che dessero una immediata risposta alle urgenze economiche e istituzionali, relative all’occupazione, alla sobrietà della politica, alla giustizia, alla legge elettorale, alla rappresentanza, al rinnovamento. È su questi punti che Bersani ha chiesto la fiducia. Non ha chiesto una fiducia in bianco, neppure una fiducia su un generico impegno.
Ma l’ineffabile senatore Crimi non è mica caduto nella trappola, ha gonfiato il petto, ha ripassato velocemente nella sua testa d’uovo quattro cinque locuzioni ad effetto e ne ha estratta una folgorante: “No a fiducia in bianco a gente come Bersani”.
Alla fine, per lo sforzo, si è riposato.
Gli 80 anni di Philip Roth
Il maggiore scrittore americano vivente compirà ottant’anni domani 19 marzo.
La sera di martedì 19 marzo su Rai Tre Giovanni Minoli per “La storia siamo noi” presenterà il lungometraggio Philip Roth rivelato di Livia Manera e William Karem.
Su “La lettura” di ieri è stata pubblicata un’intervista tratta dalle dieci ore di conversazione registrate durante la lavorazione del lungometraggio. Leggi qui
Ecco due foto dello scrittore assieme alla giornalista letteraria Livia Manera autrice del lungometraggio
Quell’ircocervo dello scrittore/donna
L’altra sera Melania Mazzucco ci ha parlato dei suoi libri. Del suo essere uno scrittore/donna. Di aver voluto per il suo ultimo romanzo Limbo un protagonista/donna. Abbiamo potuto ammirare e ascoltare un grande autore/donna. Conoscere il suo lavoro, come nasce l’idea dei suoi libri, la loro costruzione. Ma a un certo punto Melania Mazzucco si è fermata, e ci ha detto la fatica e la difficoltà di essere un grande scrittore/donna. Ci ha confessato che ci vuole tre volte l’impegno di uno scrittore uomo, essere tre volte più brava. Questa affermazione mi ha colpito. Non era certamente la prima volta che la sentivo. Ma mi ha colpito il fatto che una scrittrice affermata davanti ad una platea di persone colte, e presumibilmente non inclini alla discriminazione di genere, abbia sentito il bisogno di affermare con forza una verità che dovrebbe ormai essere patrimonio condiviso. Ho capito che ancora oggi la condizione femminile richiede una militanza consapevole, l’indisponibilità ad abbassare la guardia, ad arretrare. Una scrittrice di successo, che con la sua arte è riuscita ad affermare la propria identità di donna, è costretta a rimanere in trincea a non perdere nessuna occasione per affermare la propria specificità di genere.
Questo l’ho sentito di sera, al Tobagi, ma già la mattina, seguendo in streaming la Direzione del PD, avevo ascoltato l’intervento di Barbara Pollastrini che aveva esordito invitando il segretario ad aggiungere come priorità assoluta agli otto punti del programma di governo una legge urgente contro il femminicidio. Ancora una volta un politico/donna è stato costretto a mettere da parte (per un momento) strategie di governo e istituzionali per denunciare l’inaccettabile violenza sulle donne.
Tutto questo fino a quando?