Sulla questione del dialetto (anche in ambito letterario) pubblichiamo una riflessione del grande poeta veneto Andrea Zanzotto e una conversazione con Gianna Marcato, dialettologa, che verrà pubblicata sul prossimo numero di “Taglio Alto” inserto culturale di “Mirano Magazine”
Il dialetto usato nel Filò è press’a poco quello che si continua ancora a parlare nella valle del Soligo (alto Trevigiano), con sfumature diverse per vocaboli, modi dire, inflessioni […] Esso resta carico della vertigine del passato, dei megasecoli in cui si è stesa, infiltrata, suddivisa, ricomposta, in cui è morta e risorta «la» lingua (canto, ritmo, muscoli danzanti, sogno, ragione, funzionalità) entro una violentissima deriva che fa tremare di inquietudine perché vi si tocca, con la lingua (nelle sue due accezioni) il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte: […] forte di tutto il viscoso che la permea riconnettendola direttamente a tutti i contesti ambientali, biologici, «cosmici», liberando entro di essi il desiderio di espressione e l’espressione. Il dialetto è sentito come veniente di là dove non è scrittura. (Andrea Zanzotto)
DIALETTO. UNA LINGUA CONTESA TRA GIARDINIERI E BOTANICI
di Paolo Gallina
Abbiamo incontrato Gianna Marcato, docente di “Dialettologia italiana” all’Università di Padova che da anni affronta la questione della lingua in territorio veneto, mettendone in risalto il valore culturale. Le abbiamo chiesto un parere sullo stato attuale del dialetto.
“La polemica che spesso contrappone la lingua al dialetto, talvolta con una forte connotazione politica, non ha ragione di esistere. Infatti io mi occupo di dialettologia italiana intesa come studio funzionale alla conoscenza dell’italiano che è fatto da lingua unitaria più dialetti in continuo rapporto tra di loro e non in contrapposizione. Nel 2004 è uscito il mio libro: Parlar veneto. Istruzioni per l’uso, che non è un testo destinato agli specialisti, ma è nato con intenti divulgativi. Già il titolo vuole essere una risposta all’accesa polemica tra lingua e dialetto. Dialetto è l’etichetta di cui ci serviamo, ma, se uno vuole, può chiamarla lingua, visto che per noi linguisti ogni varietà di lingua dalla più grande alla più piccola ha pari dignità culturale. La differenza è tra lingue codificate come l’italiano e lingue solo orali come il dialetto, che sono in balia di chi le trasmette e anche di chi decide di non trasmetterle più. Certo, il dialetto può essere scritto, però mantiene una diversità che deriva dal suo essere fin dalle origini una lingua non codificata, che si è sviluppata affidandosi all’oralità con regole trasmesse da piccoli nuclei di parlanti, magari isolati che ne hanno determinato un’ampia varietà. Per esempio tra noi e le campagne si riscontrano varietà lessicali come piter/pitaro forner/fornaro. Ci tengo molto ad affermare che il dialetto è una varietà non codificata, perché trovo insensata l’idea di una lingua veneta codificata nella quale, proprio per le varietà di cui parlavo, nessuno si riconoscerebbe.”
Mi pare che la questione dialetto/lingua sia incentrata sulla dicotomia oralità/scrittura; si pone quindi un problema relativo all’uso del dialetto in ambito letterario. In questo momento storico cosa si sta osservando a questo proposito?
“Dal 1995 organizzo annualmente a Sappada degli incontri di studio internazionali su temi riguardanti i dialetti e le lingue delle minoranze e proprio nell’ultimo incontro, ma anche in uno recente a Cagliari, ci siamo occupati di questo fenomeno. In questo momento sembra che il dialetto, forse perché è in crisi come parlata, venga utilizzato da alcuni scrittori in funzione letteraria in particolare in Sicilia e Sardegna. Noi veneti abbiamo avuto il grande Zanzotto che proprio quando ha raggiunto l’apice del riconoscimento europeo si è messo a scrivere versi in dialetto. Lui spiegava così la sua scelta: “Ti sfido con una varietà linguistica che ti è oscura, ma al tempo stesso ti do una chiave per entrare in una cultura, in un paesaggio”. Meneghello invece insiste sul fatto che con il dialetto si possono fare innesti, quelli che lui chiamava trapianti, cioè servirsi di una varietà di lingua per arricchirne un’altra e questa, secondo me, è la funzione dello scrivere in dialetto.”
In certi parlanti dialettofoni si avverte quasi un’ostentazione nell’uso del dialetto, magari ricorrendo a termini in disuso, come si volesse con questo “comportamento” linguistico affermare le proprie radici. Non crede che questo atteggiamento conservatore sia velleitario nei confronti dei rapidi mutamenti a cui oggi il dialetto è sottoposto?
“Bisogna stare molto attenti sulla questione delle radici. Con i miei studenti mi diverto dicendo loro di alzarsi in piedi e di verificare che sotto i loro piedi non ci sono radici, non sono alberi. Insistere sul dialetto come radice significa affermare un’idea di identità chiusa, immutabile a cui andrebbe contrapposta un’idea di identità aperta dove ogni esperienza mi aiuta a formare la mia identità e arricchirla.”
Ho visto che anche lei è intervenuta su “Il Gazzettino” nella querelle del restauro dei nizioleti. Di questa polemica mi ha colpito la virulenza, ma anche la partecipazione e la passione. L’impressione è che per i veneziani il legame con i propri luoghi sia molto profondo, che i nomi di calli e campi risuonino vibranti e non ammettano profanazioni. Che ne pensa?
“C’è chi fa una critica di ordine politico, perché sente offesa la lingua veneta che non c’è; poi c’è chi invece ha manifestato un approccio affettivo alla questione. Mi permetta una citazione. I linguisti sono partiti da questo presupposto: “I filologi sono i giardinieri, noi siamo i botanici! Per il giardiniere conta il fiore ed estirpa tutte le erbacce che interferiscono nella sua crescita, per il linguista è importante anche la più piccola infiorescenza. E naturalmente la polemica era contro una lingua trasmessa solo per iscritto. La polemica è nata in chi vive il dialetto come una proprietà personale ed era abituato ai nizioleti che facevano parte come un’icona di quella Venezia. Come un’esperienza rassicurante che ti deriva dal passare davanti a qualcosa di conosciuto, familiare a cui sei legato affettivamente. Agganciarsi alla filologia per correggere la tradizione ha generato dispetto. Il parlante non può legarsi alla normatività della scrittura. Secondo me ancora una volta è stato trascurato ciò che i dialettologi dicono da decenni e cioè che bisogna guardare a queste forme linguistiche come a una cultura orale.”
Oggi si discute molto sullo stato della lingua italiana, sul suo progressivo impoverimento, complice anche la comunicazione in rete, che prevede contrazioni e acronimi. Forse neppure il dialetto gode di ottima salute, cosa percepisce dal suo specifico osservatorio?
“Il dialetto vive se le generazioni che devono trasmetterlo decidono di farlo. Alcuni dicono che il dialetto è stato salvato negli anni settanta proprio da chi sapeva bene l’italiano. Perché la vergogna e il disagio di dover interloquire in un mondo nuovo con una varietà di lingua che si sapeva disprezzata ha fatto sì che solo chi aveva acquisito una certa sicurezza linguistica potesse azzardarsi a parlarlo. Il dialetto è ancora molto parlato in diverse zone, ma prendendo elementi e regole dell’italiano. C’è un concetto molto importante che mi preme affermare ed è quello dell’eteronomia Non è necessario che io mi senta autonomo perché uso una varietà dialettale. Posso usare il dialetto e sentirlo come mia lingua e sentire come mia lingua anche l’italiano. Quando due varietà sono vissute come eteronome accetto che passino regole e forme dell’una nell’altra e viceversa.”