L’appuntamento il racconto vincitore della 3. edizione (2014) del “Premio Giorgio Borgognini” è stato sottoposto a un intervento di editing da parte di Laura Lepri in occasione del suo intervento a chiusura della stagione 2013/14 del Laboratorio di scrittura. L’autrice del racconto, Carmen Donadio sulla scorta dei suggerimenti di Laura Lepri ha prodotto una nuova stesura del testo che qui sotto viene riprodotta.
L’appuntamento
di Carmen Donadio
Tiberio rientrava a casa in treno dopo l’ultimo esame all’università. Era quasi sera, la nebbia e l’oscurità avanzavano insieme, nascondendo poco a poco le rotaie, i campi e le strade. I lampioni non erano ancora accesi, e lui, con le gambe molli e la testa dolorante, cercava di distinguere le ombre e le luci di fuori, qualcosa che gli confermasse che era quasi arrivato. Non vedeva l’ora di stendersi sul letto per poter cedere alla stanchezza. Il treno si fermò appena prima di entrare in stazione; la voce del capotreno avvisò di un guasto a un convoglio merci poco più avanti. «Maledetto! Maledetto treno, riparti!», il ragazzo seduto di fronte a lui diede un pugno sul finestrino dimenandosi sul sedile, accanto aveva delle rose rosse avvolte nel cellophane, un piccolo mazzo composto per lo più da boccioli. «Muoviti, dai!». «Non credo che ripartirà subito», sbuffò Tiberio innervosito. «Sono rovinato! Non mi aspetterà! Penserà che non sono venuto all’appuntamento», disse l’altro piegandosi in avanti con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. Tiberio provò un misto di pena e fastidio per il tizio avvilito che gli si accasciava davanti, schizzava seduto dritto per ogni sussulto del treno e si contorceva le mani fissando le rose. Potevano avere la stessa età, pensò, anche se quello sembrava molto più stanco di lui. «Ma, se hai un appuntamento, vedrai che ti aspetterà», disse Tiberio. «Non è detto che mi aspetti», gli rispose, mordendosi le labbra e pizzicandole più volte tra indice e pollice. Poi tamburellò piano le dita sul vetro, lasciando un’impronta umida. Buio, nebbia e poche luci lontane; rivolti all’esterno, scrutavano il finestrino senza poter cogliere altro che il proprio riflesso. «Vedi, quattro anni anni fa, proprio oggi, ho incontrato per caso, qui in stazione, una ex compagna di scuola. Era tanto tempo che non ci vedevamo, forse dieci anni, e abbiamo passato una bellissima serata insieme». Si presentarono e Armando, rosicchiandosi le unghie, cominciò a raccontare della sua amica e dei loro ritrovi. Tiberio non aveva alcun interesse per quella storia, ma la circostanza non gli lasciava scampo. Venne a sapere così che dopo quell’incontro casuale, si erano salutati dandosi appuntamento all’anno successivo, sempre in stazione al binario uno, lo stesso giorno alla stessa ora. Per un paio d’anni, con sorpresa e divertimento di entrambi, il gioco aveva funzionato bene: abbracci, chiacchiere piene di domande e risate senza tregua, poi la cena e i saluti, prima di riprendere il treno, con la promessa di rivedersi ancora. Il terzo anno, l’appuntamento era andato benissimo: durante la cena, euforici entrambi, per aver finito gli studi lei e trovato lavoro lui, avevano brindato, incrociando i bicchieri e gli sguardi, e infine le gambe nel letto dell’hotel di fronte alla stazione. Persero il treno, e dovettero aspettare il primo della mattina successiva. Nemmeno in quell’ultimo anno avevano ceduto alla tentazione di telefonarsi o scriversi, perché era contro il regolamento che si erano dati. Armando però l’aveva pensata quasi ogni giorno e ormai era sicuro del suo amore per lei. Si sarebbe dichiarato quella sera, con i boccioli di rosa pronti a schiudersi. Tiberio si era pian piano appassionato al racconto e, quando Armando smise di parlare, si accorse di non sentire più la stanchezza che prima lo appiattiva sul sedile. Il treno ormai sembrava spento e Tiberio guardava Armando con la coda dell’occhio, cercando di non fissarlo troppo, perché si era chiuso in un silenzio rassegnato di braccia inermi lungo i fianchi con la testa abbassata che penzolava in avanti. Scattarono in piedi per un fischio assordante, il treno ripartì e in pochi minuti entrò in stazione. «Arrivederci», gridò Armando. Tiberio non fece in tempo a rispondergli. Riuscì a stento a vederlo correre sulla banchina e sparire giù per le scale, con le rose alte sopra la testa. Suggestionato dalla fretta di Armando e colto dall’ansia di non sapere cosa sarebbe successo, anche Tiberio si lanciò fuori dal treno e prese a inseguire l’ombra dell’altro, scendendo e poi salendo i gradini tre a tre. Arrivato in cima al binario numero uno, mise male il piede, perse l’equilibrio e picchiò le mani su un pilastro di cemento. Quando alzò la testa, lo vide. Armando stava appiccicato con la schiena su un lato dello stesso pilastro ammuffito, premendo sul petto il mazzo di rose. Si voltava con circospezione, come se non volesse farsi vedere. «Che fai?». «Levati, Tiberio, levati da qui!», sibilò con gli occhi spalancati. Tiberio, confuso, stava per andarsene, quando Armando lo colpì con i fiori, costringendolo ad appiattirsi di schiena sul pilastro insieme a lui: «Vedi quella ragazza? Quella seduta sulla panchina, con un libro in mano. È lei. Mi è venuto un colpo… che rischio… è una fortuna che non mi abbia visto. Come ha potuto farmi questo?». Nella confusione della stazione, Tiberio sentiva a tratti le parole di Armando, che era girato dall’altra parte, e vedeva solo il suo orecchio, rosso come i boccioli di rosa che gli sfioravano il mento, e la tempia coperta di ricci neri da cui colavano sottili gocce di sudore. Tiberio sporse la testa dal nascondiglio: a una ventina di metri, c’era una ragazza seduta su una panchina, leggeva un libro e dondolava una carrozzina. «Perché non la raggiungi?», chiese Tiberio. «Ma sei pazzo? La vedi, la carrozzina? Questa c’ha un figlio… febbraio, marzo, aprile, maggio…», Armando si mise a contare con le dita sulla bocca: «Se è nato in ottobre, adesso avrà tre mesi… No, non può essere figlio mio!». Armando puntò gli occhi in quelli di Tiberio, le iridi celesti erano quasi bianche, le pupille come due spilli, poi guardò il mazzo un po’ sgualcito, glielo passò con rabbia e si fissò le mani vuote: «Io me ne vado». Mentre Armando scendeva le scale e spariva dalla sua vista, Tiberio sentì il peso delle rose, e la stanchezza che aveva dimenticato tornò a riprendersi le gambe e la testa. Da quel punto protetto guardò di nuovo la ragazza: castana, capelli lunghi, pelle chiara. Lui cosa ci faceva ancora lì? Gettò quell’impiccio di fiori in un cestino vicino e cominciò a camminare verso l’uscita, ma, quando la vide agitare la mano in direzione di una donna che arrivava correndo, si fermò a qualche passo di distanza, dandole la schiena e fingendo di leggere il tabellone delle partenze. «Non è arrivato il tuo amico?», chiese la donna. «Non ancora, purtroppo», rispose la ragazza, con voce stanca. «E pensi di aspettarlo fino a quando? Ascolta la tua sorellona: che tipo può mai essere uno che non si presenta dopo quello che è successo l’anno scorso?». «Sì, forse hai ragione, ma aspetto ancora un po’». «Come vuoi, io vado a casa, è tardissimo. Grazie mille per avermi tenuto la piccolina, se non andavo in bagno adesso scoppiavo di pipì. In bocca al lupo! Domani ti chiamo». «Sì, ciao… crepi». Le due donne si salutarono con un lungo abbraccio, e Tiberio ne approfittò per muoversi e scegliere una posizione più sicura. Entrò nel bar e rimase a guardare dalla porta a vetri. La donna con la carrozzina si allontanò, mentre la ragazza, infilato il libro nella borsa, iniziò a passeggiare avanti e indietro, con il mento in su, squadrando tutti quelli che le venivano incontro. Dieci passi lungo il binario in una direzione, e venti nell’altra. Raccoglieva i capelli in una coda immaginaria, poi li lasciava cadere, ravvivandoli con una mano. Camminava piano, e quando un treno entrava in stazione si fermava a guardare con gli occhi stretti, avvolgendo sull’indice lunghe ciocche, morbide spirali che si scioglievano all’istante. Tiberio la osservava, chiedendosi se avrebbe dovuto correre a cercare Armando. Decise invece di aspettare, valutando la situazione che era cambiata in modo inaspettato sotto i suoi occhi, e cominciando a considerare quegli eventi non come casuali coincidenze, ma come segni del destino. Tiberio concluse che era una fortuna che lei non lo avesse visto e che Armando se ne fosse andato. La ragazza esaminò il grande orologio all’esterno della biglietteria, guardò ancora verso i binari e se ne andò. Tiberio corse al cestino, ripescò il mazzo e, mentre la seguiva, fu colto da una quasi totale assenza di suoni: niente più fischi di treni, nessun annuncio all’altoparlante, mute le voci concitate di chi stava partendo, e anche sulla strada le macchine in movimento non facevano alcun rumore. Per qualche secondo, sentì solo il battito del suo cuore e il leggero fruscio del cellophane che avvolgeva le rose. Finché non la raggiunse al semaforo e respirò. Fu investito dal fragore della strada e tornò il chiasso confuso della stazione alle sue spalle. La nebbia si era alzata e la sera sembrava notte fonda. Attraversarono uno accanto all’altra, Tiberio entrò dopo di lei nel bar dell’hotel; solo quando fu seduta con una cioccolata calda davanti, si avvicinò. «Se non ti offendi, queste sono per te». La ragazza lo fissò con un’espressione delusa. Di nuovo avvolse ciuffi di capelli tra le dita, ma i boccoli si raddrizzarono subito. «Mi è capitata una cosa assurda. Posso sedermi?», disse Tiberio, prendendo posto di fronte alla ragazza che cominciava a guardarlo con curiosità. Le raccontò che la sua nuova fidanzata non si era presentata all’appuntamento e lei, pensando che questa storia fosse più triste della sua, rise. Per farla ridere di nuovo, Tiberio raccontò ancora, inventando sempre meno e dimenticando Armando, di cui lei non gli parlò mai. Mai, in trentacinque anni. Da un po’ di tempo Tiberio non dorme bene. Forse è normale che sia così: già prima di compiere sessant’anni ha cominciato a sentire gli acciacchi dell’età. Il disturbo del sonno è uno di questi, ha pensato. Poi si è ricordato di un’immagine che qualche giorno fa lo aveva turbato, e che aveva subito scacciato dalla memoria, con irritazione, come si allontana una zanzara senza accorgersi che ha appena punto. Una notte, quell’immagine è tornata prepotente, nitida, come in una fotografia. L’aveva rivisto. Che giorno era? Possibile fosse il giorno dell’appuntamento? Seduto su una panchina del binario uno, con lo sguardo rivolto ai treni in arrivo, una mano sull’altra, e sotto un bastone da passeggio. Armando aspettava, accanto a lui un mazzo di rose rosse, tutti boccioli.