L’ appuntamento
di Carmen Donadio
Trentacinque anni fa, Tiberio rientrava a casa in treno dopo l’ultimo esame all’università. Era quasi sera, la nebbia e l’oscurità avanzavano insieme, nascondendo poco a poco le rotaie, i campi e le strade. I lampioni non erano ancora accesi, e lui, con la testa dolorante e le gambe molli per la tensione accumulata, cercava di distinguere le ombre e le luci di fuori, qualcosa che gli confermasse che era quasi arrivato. Non vedeva l’ora di stendersi sul letto per poter cedere del tutto alla stanchezza.
Il treno si fermò appena prima di entrare in stazione; la voce del capotreno avvisò di un guasto ad un convoglio merci poco più avanti.
“Maledetto! Maledetto treno, riparti!” – il ragazzo seduto di fronte a lui diede un pugno sul finestrino dimenandosi sul sedile, accanto aveva delle rose rosse avvolte nel cellophane, un piccolo mazzo composto per lo più da boccioli.
“Muoviti, dai!”
“Non credo che ripartirà subito” – sbuffò Tiberio innervosito.
“Sono rovinato! Non mi aspetterà! Penserà che non sono venuto all’appuntamento. Maledetto treno!” – disse l’altro battendo tutti e due i pugni sul finestrino, e piegandosi in avanti con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani.
Tiberio provò un misto di pena e fastidio per il tizio avvilito che gli si accasciava davanti, schizzava seduto dritto per ogni sussulto del treno e si contorceva le mani fissando le rose. Potevano avere la stessa età, pensò, anche se quello sembrava molto più stanco di lui.
“Ma, se hai un appuntamento, vedrai che ti aspetterà” – provò a dire.
“Non è detto che mi aspetti, il nostro è un appuntamento speciale” – gli rispose, mordendosi le labbra e pizzicandole più volte tra indice e pollice. Poi tamburellò piano le dita sul vetro, lasciando un’impronta umida.
Fuori, buio, nebbia e poche luci lontane; rivolti all’esterno, scrutavano il finestrino senza poter cogliere altro che il proprio riflesso.
“Vedi, quattro anni fa, proprio oggi, ho incontrato per caso, qui in stazione, una mia amica, ex compagna di scuola. Era tanto tempo che non ci vedevamo, forse dieci anni, e abbiamo passato una splendida serata insieme”.
Si presentarono e Armando, sempre guardando fuori e rosicchiandosi le unghie, cominciò a raccontare della sua amica e dei loro ritrovi. Tiberio non era per niente interessato alla storia, ma la circostanza non gli lasciava scampo.
Venne a sapere così che dopo quell’incontro casuale, si erano salutati dandosi appuntamento all’anno successivo, sempre in stazione al binario uno, lo stesso giorno alla stessa ora. Per un paio d’anni, con sorpresa e divertimento di entrambi, il gioco era funzionato bene: abbracci, chiacchiere piene di domande e risate senza tregua, poi la cena e i saluti, prima di riprendere il treno, con la promessa di rivedersi ancora. Il terzo anno, l’appuntamento era andato benissimo: durante la cena, euforici entrambi, per aver finito gli studi lei, e trovato lavoro lui, avevano brindato, incrociando i bicchieri e gli sguardi, e infine le gambe nel letto dell’hotel di fronte alla stazione. Persero il treno, e dovettero aspettare il primo della mattina successiva.
Nemmeno in quell’ultimo anno si erano telefonati, perché era contro il regolamento. Armando però l’aveva pensata quasi ogni giorno e ormai era sicuro del suo amore per lei. Si sarebbe dichiarato quella sera, con i boccioli di rosa pronti a schiudersi.
Tiberio si era tanto appassionato al racconto da non sentire più la stanchezza che poco prima lo appiattiva sul sedile, e, quando quello smise di parlare, era completamente sveglio e un po’ in apprensione per lui. Per sfogare l’agitazione crescente, cominciò a oscillare le gambe e sbattere le ginocchia tra loro, creando un po’ di movimento in un treno che non sembrava solo fermo, ma ormai del tutto spento. Intanto lo guardava con la coda dell’occhio, cercando di non fissarlo troppo, perché si era chiuso in un silenzio rassegnato di braccia inermi lungo i fianchi con la testa abbassata che penzolava in avanti.
Scattarono in piedi per un fischio assordante, il treno ripartì e in pochi minuti entrò in stazione.
“Arrivederci, Tiberio”.
Non fece in tempo a rispondergli, ché era già sceso. Riuscì a stento a vederlo correre sulla banchina e sparire giù per le scale, con le rose alte sopra la testa.
Suggestionato dalla fretta di Armando e colto dall’ansia di non sapere cosa sarebbe successo, anche Tiberio si lanciò fuori dal treno. Fece le rampe di scale saltando i gradini tre a tre, e mentre correva, immaginava che qualche secondo prima anche Armando aveva fatto la stessa cosa.
Quasi s’ammazzò: arrivato in cima al binario numero uno, mise male il piede, perse l’equilibrio e picchiò le mani su un pilastro di cemento.
Quando alzò la testa, lo vide. Armando stava appiccicato con la schiena su un altro lato dello stesso pilastro ammuffito, premendo sul petto il mazzo di rose e voltandosi a scatti, attento a non farsi vedere.
“Che fai?”
“Levati, Tiberio, levati da qui!” – sibilò con la bocca tirata e gli occhi spalancati.
Confuso, stava per andarsene, quando Armando lo colpì con i fiori, costringendolo ad appiattirsi di schiena sul pilastro insieme a lui: “Vedi quella ragazza? Quella seduta sulla panchina, con un libro in mano. È lei. Mi è venuto un colpo… che rischio… è una fortuna che non mi abbia visto. Come ha potuto farmi questo?”
Nella confusione della stazione, Tiberio sentiva a tratti le parole di Armando, che era girato dall’altra parte, e vedeva solo il suo orecchio, rosso come i boccioli di rosa che gli sfioravano il mento, e la tempia coperta di ricci neri da cui colavano sottili gocce di sudore.
Sporse anche lui la testa dal nascondiglio: a una ventina di metri, c’era una ragazza seduta su una panchina, leggeva un libro e dondolava una carrozzina. Ogni tanto alzava lo sguardo, cercando tra la gente, e Tiberio, per timore che lo vedesse, si ritraeva.
“Perché non la raggiungi?”
“Ma sei pazzo? La vedi, la carrozzina? Questa c’ha un figlio… febbraio, marzo, aprile, maggio…”, si mise a contare con le dita sulla bocca: “Se è nato in ottobre, adesso avrà tre mesi… No, non può essere figlio mio!”
Armando puntò gli occhi in quelli di Tiberio, le iridi celesti erano quasi bianche, le pupille come due spilli, poi guardò il mazzo un po’ sgualcito, glielo passò con rabbia e si fissò le mani vuote: “Io me ne vado”.
Mentre Armando scendeva le scale, Tiberio sentì il peso delle rose, e la stanchezza che aveva dimenticato tornò a riprendersi le gambe e la testa.
Da quel punto protetto guardò di nuovo la ragazza: castana, capelli lunghi, pelle chiara. Lui cosa ci faceva ancora lì?
Gettò quell’impiccio di fiori in un cestino vicino e cominciò a camminare verso l’uscita, ma, quando la vide agitare la mano in direzione di una donna che arrivava correndo, si fermò a qualche passo di distanza, dandole la schiena e fingendo di leggere il tabellone delle partenze.
“Non è arrivato il tuo amico?”
“Non ancora, purtroppo”.
“E pensi di aspettarlo fino a quando? Ascolta la tua sorellona: che tipo può mai essere uno che non si presenta dopo quello che è successo l’anno scorso?”
“Sì, forse hai ragione, ma aspetto ancora un po’”.
“Come vuoi, io vado a casa, è tardissimo. Grazie mille per avermi tenuto la piccolina, se non andavo in bagno adesso scoppiavo di pipì. In bocca al lupo! Domani ti chiamo”.
“Sì, ciao… crepi”.
Le due donne si salutarono con un lungo abbraccio, e Tiberio ne approfittò per muoversi e scegliere una posizione più sicura. Entrò nel bar e rimase a guardare dalla porta a vetri.
La donna con la carrozzina si allontanò, mentre la ragazza, infilato il libro nella borsa, iniziò a passeggiare avanti e indietro, con il mento in su, squadrando tutti quelli che le venivano incontro. Dieci passi lungo il binario in una direzione, e venti nell’altra. Raccoglieva i capelli in una coda immaginaria, poi li lasciava cadere, ravvivandoli con una mano. Camminava piano, e quando un treno entrava in stazione si fermava a guardare con gli occhi stretti, avvolgendo sull’indice lunghe ciocche, morbide spirali che si scioglievano all’istante.
Tiberio la osservava, chiedendosi se avrebbe dovuto correre a cercare Armando. Decise invece di aspettare, valutando la situazione che era cambiata in modo inaspettato sotto i suoi occhi, e concludendo infine che era una fortuna che lei non lo avesse visto e che Armando se ne fosse andato.
La ragazza esaminò il grande orologio all’esterno della biglietteria, guardò ancora verso i binari e se ne andò.
Tiberio corse al cestino, ripescò il mazzo e, mentre la seguiva in apnea, fu colto da una quasi totale assenza di suoni: niente più fischi di treni, nessun annuncio all’altoparlante, mute le voci concitate di chi stava partendo, e, anche sulla strada, le macchine in movimento facevano lo stesso rumore di quelle parcheggiate. Per qualche secondo, sentì solo il battito del suo cuore e il leggero fruscio del cellophane che avvolgeva le rose. Finché non la raggiunse al semaforo e respirò.
Fu investito dal fragore della strada e tornò il chiasso confuso della stazione alle sue spalle. La nebbia si era alzata e la sera sembrava notte fonda.
Attraversarono uno accanto all’altra, Tiberio entrò dopo di lei nel bar dell’hotel; solo quando fu seduta con una cioccolata calda davanti, si avvicinò.
“Se non ti offendi, queste sono per te”.
La sua espressione triste accennò un sorriso. Di nuovo avvolse ciuffi di capelli tra le dita, ma i boccoli si raddrizzarono subito. Con un gesto della mano lo invitò a sedersi.
Tiberio le raccontò che la sua nuova fidanzata non si era presentata all’appuntamento e lei, forse pensando che questa storia fosse più triste della sua, rise. Per farla ridere di nuovo, Tiberio raccontò ancora, inventando sempre meno e dimenticando Armando, di cui lei non gli parlò mai.
Mai, in trentacinque anni.
Da un po’ di tempo Tiberio non dorme bene. Forse è normale che sia così: già prima di compiere sessant’anni ha cominciato a sentire gli acciacchi dell’età. Il disturbo del sonno è uno di questi, ha pensato. Poi si è ricordato di un’immagine che qualche giorno fa lo aveva turbato, e che aveva subito scacciato dalla memoria, con irritazione, come si allontana una zanzara senza accorgersi che ha appena punto.
Una notte, quell’immagine è tornata prepotentemente a inquietarlo, nitida, come in una fotografia. L’aveva rivisto. Che giorno era? Possibile fosse il giorno dell’appuntamento? Seduto su una panchina del binario uno, con lo sguardo rivolto ai treni in arrivo, una mano sull’altra, e sotto un bastone da passeggio. Armando aspettava, accanto a lui un mazzo di rose rosse, tutti boccioli.